sabato 8 agosto 2015

Quel che mi resta di Expo Milano - Cosa vedere e cosa no



Va bene, non avevo aspettative troppo alte su Expo Milano, anche prima di andare a visitarlo. 
Lo ammetto. 
I presupposti morali della Fiera a cui l'Italia si stava preparando da ben 7 anni non erano dei migliori, insieme alle indiscrezioni sui ritardi, le speculazioni, i progetti mai finiti. Insomma, nulla che mi confortasse. 
Ma criticare male e senza materiale per le mani non mi è mai piaciuto troppo, ed è così politically uncorrect, così ho deciso di andare. 
E poi si sa, tra amici è più facile. 
Tutte quelle vecchie storie di Expo comune, mezzo gaudio
E allora siam partiti. 
Contando anche che le opinioni degli amici sono totalmente discordanti, la mia sarà semplicemente una tra le tante.

Comunque. 
Lunedì 3 agosto, temperatura sopportabile, ore 10 davanti ai tornelli. Livello di coda: quasi nullo. Mi libero dei braccialetti e del cellulare per passare oltre il metal detector, tanto che per un attimo mi sembra d'essere a Malpensa, e si entra. 
Un rivolo d'acqua largo una manciata di metri delimita tutta l'area, rigorosamente cementificata, dell'enorme fiera (ciò che rimane dell'ambizioso progetto delle Vie d'Acqua, immagino, presente nei rendering iniziali, ridimensionato via via e infine eliminato) mentre si intravedono i primi padiglioni. 
Quello che salta immediatamente all'occhio, entrando all'Expo, è la quantità immensa di cemento utilizzata, alle volte alleggerita allo sguardo da qualche alberello piantato qua è là, qualche metro quadro di erba che ospita assolate aree pic-nic e il grande lago artificiale che ospita l'Albero della Vita. 

L'effetto è straniante: da un tema così nobile come "Nutrire il pianeta - energia per la vita" di tutto ci si sarebbe aspettati, tranne che una comoda distesa grigia e un albero in simil legno spoglio ed esageratamente grande. 
Insomma, sin da subito l'effetto è quello di una Disneyland per bambinoni cresciuti come noi. Il sentore da parco dei divertimenti è confermato dai vari carretti (in plastica, vetroresina, polistirolo?) sistemati lungo tutto il Decumano (la via principale che taglia a metà la fiera) che rappresentano antichi e ricchi banchi del mercato alimentare, dalla macelleria alle spezie. Il tutto rigorosamente plastificato.
Enormi tendoni ricoprono il Decumano per la propria lunghezza, segno della pietà dei progettisti verso le milionate di persone in pellegrinaggio estivo alla Fiera. 
Persone che sembrano non infastidirsi nell'ascoltare i perpetui annunci, in più lingue, sputati fuori dagli altoparlanti seminati in ogni dove, che ricordano quanto Expo sia meravigliosa. Ognuno preceduto dal tipico "dlin dlon" che si ascolta nei supermercati subito prima di "..un addetto al reparto ortofrutta è desiderato in cassa". 
Il supermercato delle ipocrisie è aperto sino a ottobre, venghino siori, venghino. 

L'effetto rintronati è assicurato. Dal caldo, dal rumore, dagli spettacoli assolutamente decontestualizzati che Expo ci propone a tempi alterni lungo il Decumano, dalle architetture stravaganti e seducenti. Va detto che tali architetture sono state riservate, ovviamente, ai paesi meritevoli. Gli altri sono stati raggruppati in modesti cluster, tutti identici, divisi per categorie: dal caffè al riso, dalle spezie alle isole. La maggior parte seminascosti nelle retrovie, ché qui la povertà non esiste e meglio se non la mettiamo troppo in mostra. 
In bella mostra invece ci sono, tra un paese e l'altro, le multinazionali italiane e straniere più in voga, dalla Moretti alla Lavazza, dalla Martini al McDonald's. Quest'ultimo incessantemente pieno, alla faccia della biodiversità. 
Le prelibatezze locali di ogni paese si possono gustare invece sul retro di ogni padiglione, a visita finita, aspettandosi una bella fetta di popolazioni locali addette alla preparazione.
Aspettativa disattesa, però, nella maggior parte dei casi. 
Al padiglione degli Stati Uniti, a servirci un bel Black Angus Burger è stato un ragazzo dall'orecchino al naso con l'accento di Gallarate. 
Bizzarrie culturali che, evidentemente, saltano poco all'occhio del visitatore distratto. 

Ma passiamo ai padiglioni. 
Immancabile la visita a Palazzo Italia, unico nel suo genere, bianco candido, a simboleggiare il vivaio o il nido, non ricordo, in cemento biodinamico. 
Col cemento biodinamico devo ammettere che a primo acchitto mi hanno zittita. Per poi farmi ritrovare la parola una volta dentro. Un'esposizione senza capo né coda, basata sul contrasto e quattro temi portanti: "la potenza del saper fare", "la potenza della bellezza", "la potenza del limite" e "la potenza del futuro". (Credo i titoli li abbia scelti Renzi)
Un'accozzaglia di cose, in cui il cibo e le tecniche di salvaguardia ambientale per il futuro praticamente non compaiono, di cui ricordo, nell'ordine: 21 personalità dell'agroalimentare italiane che raccontano, in un tempo infinito, le loro esperienze, proiettate su quattro statue di carton gesso (non saprei spiegarmi meglio di così), stanze totalmente rivestite di schermi che proiettano immagini delle Cinque Terre, di Capri, di Venezia, senza assolutamente alcuna spiegazione, stanze totalmente rivestite di specchi, una chaos room di due metri quadri a luci stroboscopiche, un filmato della cattedrale di Assisi che crolla, 21 schermi di 21 catastrofi italiane, un'Italia in miniatura con micro-colture semi-morenti delle varie regioni. Un elenco di "Regione Lombardia, Regione Piemonte..." che culmina con "Regione Siciliana". L'incongruenza linguistica che subito ci ricorda che siamo, appunto, in Italia. 
Un fil rouge misterioso e filosofico, della varietà ad canis cazzum, che non valorizza nulla di nostro al mondo. Che dire che sarebbe bastato poco. Un po' di colore, di forme, di sapore, un assaggino di oliva taggiasca, uno spruzzo sul naso di estratto di agrumi di Sicilia. 

Cinquanta minuti di coda e la delusione nel cuore.
Ma basta poco per riportare il morale a livelli accettabili: il padiglione di Israele, con le sue
colture verticali, ispira e invita ad entrare. 
Uno spettacolo digitale decisamente ben fatto ci racconta come Israele abbia fatto del proprio suolo, arido e inospitale, terreno fertile per infinite colture e sperimentazioni agricole d'avanguardia. 
Peccato che il tutto strida, però, con i complicati rapporti diplomatici con la Palestina, che tutt'oggi, dopo decenni, rimane martoriata da Israele. 
Volete per caso dirmi che i contesti sociali, culturali, economici e geopolitici mondiali non influiscono, negli sviluppi dei Paesi?
Volete dirmi che basta decontestualizzare il tutto, parlare solo dei bei cibi che vogliamo mostrare, per parlare di nutrimento del pianeta?
Evidentemente sì. 

Allora lasciatemi almeno mangiare una frittella di zenzero e cipolla nel padiglione del Nepal, tra i mormorii buddisti e le colonne in legno del tempio.
Che faccio finta d'essere altrove. 

mercoledì 8 luglio 2015

Extreme Research - Home Edition


C'è qualcosa di primitivo, nello sbirciare nelle case degli altri dalle finestre aperte.
Non cosa facciano gli altri all'interno delle proprie case, ma proprio le stanze stesse.
Insomma, uno spirito di appartenenza al luogo dove ci si ciba, si russa la notte, ci si guarda allo specchio ogni mattina. 
Una tenda che sventola pigra, un angolo di soffitto, una silhouette di lampadario, qualche libro ordinatamente impilato sugli scaffali. E immagini vite, situazioni, colori, odori che potrebbero essere i tuoi, da quanto sono intimi e racchiusi lì, in quelle quattro mura che vedono le persone crescere e invecchiare, silenziose e senza alcun giudizio. 
Pensi alle tue, di stanze, a tutte quelle che, anche solo per un po', hai abitato, arredato, annusato, colorato. E pensi a quelle che abiterai. 
E quando le cerchi, quelle stanze, quel tetris che riesca perfettamente a incastrarsi con quello che sei, tutto si dimostra più complicato del previsto. 
Soprattutto se quello che cerchi si deve incastrare bene con quello che sei tu e quel che è qualcun altro. 
Soprattutto se ogni volta che varchi un ingresso provi a immaginartici in pigiama, ad aprire un'anta per recuperare i biscotti al mattino. Ti ci immagini a letto con la febbre a sudare la sacra sindone, in cucina a immergere nel Barbera quel brasato che volevi tanto riprovare a fare.
A sbattere quelle porte riverniciate di fresco oppure sbeccate quando sbotterete. (Sbattere le porte rimane una delle mie attività preferite, nelle discussioni). 
Un po' troppo romanzato?
Forse. 
Sarà per questo che sovrapporre immaginario e realtà risulta sempre così difficile. 

Comunque. 
La ricerca di un nido è generalmente estrema. 
Che si faccia online, si batta portone per portone alla ricerca dell'annuncio, manco fosse l'arcangelo in persona a calarlo dal cielo, o ci si faccia consigliare da amici e conoscenti, ti metti nelle mani di qualche guida, del Virgilio di turno che, chiavi in mano, apre porte su un futuro che potrebbe essere il tuo. 
O anche no. 
Perché quell'appartamento è troppo bello ma anche troppo fuori dalla tua portata.
Perché in quell'altro non potresti sicuramente mai portarci tua madre, data la qualità dei vicini e della vista rumenta dalle finestre. (Ho immaginato la faccia di mia madre, sì)
Perché quella simpatica donnina tedesca che mette online un appartamento col bovindo e il bagno in marmo di Carrara ad una cifra irrisoria forse sì, Alessandra, poteva darti due indizi sulla truffa. Senza nemmeno aspettare che ti chiedesse mille euro in anticipo per vederla e decidere, entro 48 ore, se andasse bene o no. 
Insomma, la speranza rimane l'ultima, a morire. 

Chissà qual è, l'importanza giusta da dare ad una casa. 
Chissà dove sta, quel giusto mezzo per sentircisi, a casa. 





martedì 31 marzo 2015

E tu, da che parte stai?


La perfezione ha un non so che di inquietante. 
Un po' come il corpo di Christian Bale in American Psycho, un Ken splendido splendente prima che quella tuttofare di Barbie gli rovinasse la vita. 
La perfezione ha quel fascino morboso di un incidente stradale per cui rallenti fin quasi a tamponare la macchina davanti solo per vedere quello spiraglio di tragedia, quel rivolo di sangue, quel casco frantumato sull'asfalto. 
La perfezione suscita l'invidia rovente di chi invece proprio non ci arriva. 
La perfezione ha quel ruolo di linea di demarcazione tra quello che si è e quella roba bellissima che si potrebbe essere, avere, fare, dire, sembrare, apparire, metteteci un verbo a caso.
E allora via, bianco e nero, bello e brutto, la vita si divide in una -appunto perfetta- ottica dicotomica e o sei di qui o sei di lì. 
Un muro di Berlino emozionale per cui le sfumature non esistono. 

Che poi la quotidianità sarebbe così facile dividerla in giusto e sbagliato.
Vero e falso.
Bello e brutto. 
Amico e nemico. 
Che poi uno tende un po' a farla, sta linea a mò di tabella Excel. 
Di qui quello che sì, sta con me. 
Di lì quello che, diamine, non va bene, non è giusto, non è vero. 
Chi mangia carne di là (scusate, è che sotto Pasqua la crociata dell'agnello va di moda, e se lo ricorda anche la Brambilla), chi non la mangia sta con me. 
Chi tifa e chi no, chi è religioso e chi è ateo, chi crede nel nucleare e chi no, chi ha paura dei musulmani (?) e chi no. 
Non c'è spazio per altro. 
Quello che rimane tra le pieghe del bianco e del nero sparisce, inglobato nelle due fazioni ben differenziate e opposte, senza dialogo, senza possibilità di discussione. 
Basta scegliere da che parte stare. 
E poi via, si imparano due o tre regole sulla propria squadra, e si gioca. 
Colpi bassi inclusi. 
Una continua lotta dove il ring ha perso qualsiasi forma. 
Senza spazio né tempo, ormai è così facile dire la propria. 
Lo sto facendo pure io adesso, e figurarsi. 

Eppure tutto questo è inquietante. 
Quasi quanto un centinaio di commenti sotto alla foto di un cane riportato al canile da una padrona che "ha scoperto di essere incinta". 
Tanti, gli auguri alla neomamma. 
"Abortisci"
"Spero che tuo figlio ti sputa"
"Stessa fine dovrai fare, tuo figlio ti abbandonerà e morirai sola"
"Un altra che si fa mettere in cinta e spero che muore"
E dulcis in fundo "ci puo sempre essere caduta spontanea dalle scale"
Non so se il nesso tra la consecutio temporum e la violenza verbale sia scientificamente provato, ma come ricerca sociologica fa parecchio paura. 
Noi e voi.
I buoni e i cattivi. 
Il bene e il male. 
Tutto il resto è adrenalina.

(Di sicuro non grammatica)



martedì 24 marzo 2015

La religione del muffin {e qualche livido}


Se nella vita avessi la stessa incostanza con cui aggiorno il blog..OH WAIT. 
Va bene, posso dire che ho da fare.
Che stamane ero a fare colazione in pigiama da McDonald's. 
No, non è vero. 
Che poi uno si chiede "cosa mai dovrà succedere nel mondo per far unire gli animi e gli intenti, per vedere, chessò, 20mila persone riunite insieme per una sola causa? 
Cosa deve succedere, ancora, per smuovere tutti?"
Bastava un muffin lievitato nel '96 e un cappuccino di latte di t-rex fossile.
Gratis. 
La religione del fast food ha molti più adepti di quanto si potesse immaginare.
Alla faccia di tutto il dop, doc, il biodinamico, biologico e bionostalgico.
Che poi le ho viste, le facce delle ragazze in pigiama sui giornali.
Menzognere. 
Il pigiama di Peppa Pig e il trucco di Paris Hilton


Ma va là. 

E questa era solo l'anticipazione di un post che non ha né capo né coda.
La breaking news è in realtà arrivata ieri nelle nostre redazioni: testimoni oculari (il mio fruttivendolo ndr) giurano d'aver visto una testolina rossa e riccia spalmarsi sull'asfalto del marciapiede in zona del Carmine, atterrando di esterno coscia e attutendo così un colpo da dieci e lode. 
In realtà c'era anche Elisa che ha pensato mi fossi spaccata pure il femore. 
Roba che se qualcuno m'avesse filmata a rallentatore avrebbe visto chiaramente la materia contenuta dai miei collant toccare terra, prendere slancio per un altro rimbalzo e riaccasciarsi così, con uno strappo sulla calza che nemmeno nei peggiori periodi grunge adolescenziali. 
Adesso ho anche io le mie cinquanta sfumature. 
Di viola. 
E di voltaren. 


E così mi sono ritrovata a mostrare, con l'orgoglio di una sopravvissuta, le ferite di guerra. 

Alle coinquiline. 
Con l'ausilio del minestrone surgelato di Francesca. (era chiuso, ndr)
"Certo che oh, come sei gonfia, sarà la botta"
"Temo sia la botta di carboidrati che mi son fatta a Roma. Sai, cacio e pepe, carbonara, amatriciana.."
Sì, perché in questo arco temporale di sfighe ho trovato anche il tempo di fare una microfuga nella città eterna, c'ho Lui che mi è diventato famoso e ogni scusa è buona per ingozzarsi.


E per il gran finale mii auto-intercetto e pubblico il testo del misfatto.

Numero privato. 
"Pronto?"
"Pronto, signorina Arpi?"
"Lo sapevo che saresti stato tu, a chiamarmi sempre col privato..." -risolino-
"No signora, sono delle Poste, c'è un pacco da ritirare con urgenza"
"......"
"......"
"....merda..cioè, quando posso venire a ritirarlo?"
Il "tu" in questione non è l'amante ma un collega che adora fare scherzi. 
Ed è quando dai per scontato che sia uno di quegli scherzi burloni, proprio in quel momento, che la figura barbina ti coglie. 


Il volo a pelle d'orso non poteva che essere la degna conclusione di giornata. 


domenica 25 gennaio 2015

"Charlie?" ovvero qualche bilancio


Non che di solito abbia un filo conduttore nella mia testa. 
Ma stavolta ho aperto blogger un po' per noia, un po' perché ultimamente chiunque è diventato opinionista del web e io non ho più detto una mazza, un po' perché in questa domenica sera ventosa e silenziosa l'alternativa sarebbe stato il candeggiare i bordi della mia finestra, intrisi di una muffa pelosetta e sulle 50 sfumature di grigio. 
Chi ha il sadomaso, chi i parassiti. 
Quindi. La muffa sta ancora lì.
E le mie dita qui, un po' incerte, con l'indice che va a battere ripetutamente sul tasto canc.
Ma mi sembrava un po' d'obbligo, questa cosa di tirare le somme. 
Tirare le somme del tempo che passa, della libertà d'espressione, di questo inverno bislacco, dell'anno appena trascorso (sì, ci ho messo un po' ad elaborare il bilancio e lo snocciolo il 25gennaio) e di questo nuovo ridente 2015 che si è appena aperto davanti a noi. 
Sarà che il passaggio da quel "14" a quel "15" a me ricorda tanto quello tra i 14 e i 15 anni, quando ero ancora digiuna delle tonnellate di sigarette fumate sino a qualche anno fa, quando i miei capelli erano ancora vergini di tinte e soprattutto c'erano (spoiler: non sono ancora pelata, li ho solo tagliati), quando non avevo preso più chili di una gravidanza in cinque mesi, quando ancora pensavo che la professione che avrei voluto intraprendere sin da pargola fosse un misto tra Tiziano Terzani e Bob Woodward e invece i tempi sono un pelino cambiati, sarà che ero anche una fulgida stella nell'universo degli adolescenti in crisi ma in fondo teneramente piena di speranze, ma quest'anno mi ricorda proprio quel periodo.
E no, non perché ho deciso di riesumare i jeans a zampa d'elefante della Fornarina
Ma perché questo passaggio 14-15 è pieno delle stesse speranze, mutate, stropicciate, ridimensionate, forse parecchio disilluse, ma pur sempre speranze. 
Questo passaggio è avvenuto senza troppe aspettative, senza grandi preparativi.
Senza perizomi rossi.
Senza buttare dalla finestra qualcosa di vecchio.
Senza la frenesia che precede l'organizzazione di un cambiamento epocale.
Ma con qualche amico in più, un po' di focaccia e dei calici da vino da sedici euro.
Eppure qualcosa si deve essere mosso.
Qualcosa proprio lì, tra le costole, tra lo sterno e il fegato, in mezzo ai reni. 
Qualcosa di pesante, intricato ed annodato.
Che si è spostato altrove. (Forse sui fianchi?)
Si è mosso e ha emesso una risata.

Nel frattempo c'è stata Frida, qualche rigurgito di una signorina mora sul mio maglione, del cibo cinese, un gratta e vinci, qualche crisi di nervi, qualche chilo di peperonata (toglietemi tutto, ma non il pepper), qualche sogno premonitore, un grembiule, il miracolo del pane che lievita, un 36, un po' di Messico, un po' di Ungheria, un po' di Modena e un po' di Polonia, senza nemmeno spostarsi. 
E c'è stato Charlie. 
Che per me Charlie era pelato e con una maglietta gialla.
E invece Charlie con l'accento sulla "i" è entrato con prorompenza nelle nostre vite, proprio il giorno in cui il mondo ha scoperto la libertà d'espressione.
In tutto questo ho solo una domanda: poniamo che io, indossando i colori del Genoa e con una trombetta da stadio in mano mi rechi, appunto, allo stadio. Al derby. All'uscita della curva sud. (N.B. Ho scelto Sampdoria e Genoa solo perché vagamente ne ricordo i colori e i giocatori, non per razzismo calcistico). E con il mio migliore estro artistico disegni un cartello, che espongo ben in evidenza in mano, con un'immagine stilizzata di un nuovo calciatore e la didascalia "Eto sterco". E con suddetto cartello tra le mie manine sante, mi ponga ben di fronte agli ultras ripetendogli anche a voce il concetto di cui sopra. 
Possiamo ragionevolmente supporre che nel migliore dei casi io vinca uno stupro e nel peggiore qualche pietrata in mezzo agli occhi? Possiamo.
Ora. 
La domanda è la seguente: sono loro degli animali senza pietà o io un pochino demente e provocatoria, o entrambi? E' stata, la mia, libertà di espressione? 

La posso piantare?
Sì. 



martedì 16 dicembre 2014

E' Natale e io corro

-L'adorabile foto è di Gail Albert Halaban-

Al liceo studiando Bergson ho sempre trovato geniale la divisione tra tempo esteriore e tempo interiore, lui e la sua precisione così francese a spiegarci con estrema razionalità e filosofia che il tempo scandito dalle lancette dell'orologio è ben diverso da quello percepito da ogni individuo. 


D'accordissimo. 

Al tempo però fissavo solo con impazienza il display del mio telefonino pregando che passasse in fretta l'ora di chimica perché non capivo una mazza. 


Tutto qui. 

Crescendo ho pensato come Bergson non abbia mai parlato, però, di tutto quel tempo vissuto alla rinfusa, senza che passi lentamente né velocemente, nel quale si viene sballottati qua e là tipo la giostra delle tazze a Disneyland, peraltro con la stessa sensazione di vomito imminente. 
Quel tempo in cui in un attimo ti ritrovi da una città ad un'altra senza ricordare il sedile del treno che hai appena preso, perché eri troppo occupata a ripassare per quell'esame che hai tra due gior no, in realtà hai passato metà del tempo a sbirciare nelle case altrui, quelle affacciate sulla ferrovia, sempre le stesse in cui sbirci ad ogni viaggio, una volta con le tende scostate e la luce gialla del lampadario alla sera, all'ora di cena, e una volta con la signora in grembiule che spazza il poggiolo. 



Bergson non ha mai parlato del tempo che passa veloce non perché sia necessariamente un bel momento, ma perché il cervello non riesce a soffermarsi, a capirlo, a gustarlo. 

Il cervello diciamo che non riesce punto. 
E allora la vita scorre un po' così, in quella non-beatitudine di chi non capisce, di chi non afferra quell'unico particolare che potrebbe far capire tutto. (The story of our lives, insomma) 
Scorre che ieri ero in una farmacia corsa a blaterare qualcosa in francese per avere una pomata contro le punture di medusa e domani è Natale, un semestre di università è passato e torno a dare esami come se nell'ultimo anno e mezzo non avessi fatto altro e invece ho fatto tutt'altro, e nei ritagli di tempo bazzico per negozi scintillanti e orrendamente addobbati cercando regali, tra le facce perplesse e spaesate degli uomini e quelle rapaci e pronte ad accaparrarsi l'ultima occasione delle donne. 
Menomale che esistono, gli uomini sotto Natale. 

Quasi tremano nelle Feltrinelli, da Zara, da Tiger, nascondendosi tra gli scaffali come i cani durante un temporale, con quell'occhio piegato all'ingiù dei bassethound e le mani intrecciate dietro la schiena, a volte con qualche sacchetto rosso e oro in mano, chiedendosi cosa diamine si cucinerà il quel fornetto del reparto smalti, forse un toast formato mignon, quanti brillantini debba avere un'agenda per piacere alla fidanzata o di che colore debbano essere i cuori del plaid di pile per la madre. 
Un po' tristi un po' con il mio sguardo del liceo nell'ora di chimica, con quella tipica espressione da "speriamo passi presto".
Menomale che esistono perché sono solidale con loro.
Ma per poco.
Perché sono già sulla cyclette a sudare via la focaccia del pomeriggio. 
E' Natale e io corro. 

mercoledì 26 novembre 2014

La mia violenza.


Era il 25 novembre, è stato il 25 novembre. 
Un 2 e un 5 pieni sino all'orlo di parole forti, eleganti, determinate. 
Niente violenza. 
Niente violenza sulle donne. 

Consapevolezza. Forza di reagire.

E già è parecchio inquietante che ci sia il bisogno di ricordarsi, un giorno all'anno, che legnare le donne, ma soprattutto chiunque, non è carino. È un po' peggio di dimenticarsi l'anniversario.
Ma il risvolto che più fa rabbrividire, quello che scivola tra le pieghe dei luoghi comuni e dei volti di donna con l'occhio nero spalmati su tutti i muri, quello che si nasconde dietro le campagne mediatiche sui social, adorabili con i propri hashtag, anni luce prima dei convegni con gli psicologi e gli assistenti sociali, è quello degli altri 364 giorni.
Quelli della vita quotidiana, quelli prima di una relazione, quelli prima di.
La mia violenza, ma anche la tua, la sua, quella della mia farmacista, è così banale e perfettamente mascherata che non ha le forme della violenza. 

Non lascia lividi, non spinge giù dalle scale, non telefona di notte a tutte le ore minacciandomi. 

Non ha le sembianze del femminicidio, che se word me lo dà errore un diamine di motivo ci sarà.

Ma lascia l'amaro in bocca quando in treno il signore di mezza età, seduto di fronte a me, con la ventiquattrore di pelle e il cellulare in mano lo alza con nonchalance, altezza volto, e finge di concentrarsi su un messaggio. Finché non si sente distintamente un click tipico della fotografia.
Lascia l'amaro in bocca quando i consigli della sessuologa sbandierati sulle riviste sostengono che per mantenere alta la libido di coppia siano le nostre, di chiappe, a dover essere stringate e circondate da fili di lustrini, anche a gennaio, e le nostre, di gambe, perfettamente depilate, e le nostre, di sopracciglia, che non prendano possesso dell'intera faccia come quella della -pur meravigliosa- adorabile Frida Kahlo.
Lascia l'amaro in bocca quando le calze nere e il tacco che indosso con -ben poca- disinvoltura per una cena elegante sembrano essere il corrispondente segnico di un cartello con scritto "la calza nera l'ho messa per te, buon uomo che mi fissi sul pullman".
Lascia l'amaro in bocca quando nel tuo lavoro e in una presentazione "come sei carina sul palco" mentre i tuoi colleghi "come sono professionali".

Lascia l'amaro in bocca quando si pensa che l'umanità intera, uomini e donne, dovrebbe ragionare a fondo sul fatto di questa mania di catalogare il sesso femminile quello "debole". E soprattutto decidere se lo sia sempre, in ogni circostanza, o solo quando fa comodo (agli uni e agli altri).

E' sesso debole solo quando ci si fa offrire l'aperitivo o si entra gratis nei locali ma è sesso forte quando si chiede la parità sul lavoro. E al contrario è parità dei sessi quando la valigia me la devo camallare per sei rampe di scale in stazione Principe senza che un buon samaritano muscoloso mi presti le sue braccia, ma non lo è quando invece guido, che, in quanto donna, direziono il mio automezzo ad canis cazzum. Lascia l'amaro in bocca quando sembra che la parola sindaca, assessora e avvocatessa siano la priorità nel mondo lavorativo, culturale e sociale dei paesi avanzati.

Quando basterebbe molto meno.

Quel che mi resta di Expo Milano - Cosa vedere e cosa no



Va bene, non avevo aspettative troppo alte su Expo Milano, anche prima di andare a visitarlo. 
Lo ammetto. 
I presupposti morali della Fiera a cui l'Italia si stava preparando da ben 7 anni non erano dei migliori, insieme alle indiscrezioni sui ritardi, le speculazioni, i progetti mai finiti. Insomma, nulla che mi confortasse. 
Ma criticare male e senza materiale per le mani non mi è mai piaciuto troppo, ed è così politically uncorrect, così ho deciso di andare. 
E poi si sa, tra amici è più facile. 
Tutte quelle vecchie storie di Expo comune, mezzo gaudio
E allora siam partiti. 
Contando anche che le opinioni degli amici sono totalmente discordanti, la mia sarà semplicemente una tra le tante.

Comunque. 
Lunedì 3 agosto, temperatura sopportabile, ore 10 davanti ai tornelli. Livello di coda: quasi nullo. Mi libero dei braccialetti e del cellulare per passare oltre il metal detector, tanto che per un attimo mi sembra d'essere a Malpensa, e si entra. 
Un rivolo d'acqua largo una manciata di metri delimita tutta l'area, rigorosamente cementificata, dell'enorme fiera (ciò che rimane dell'ambizioso progetto delle Vie d'Acqua, immagino, presente nei rendering iniziali, ridimensionato via via e infine eliminato) mentre si intravedono i primi padiglioni. 
Quello che salta immediatamente all'occhio, entrando all'Expo, è la quantità immensa di cemento utilizzata, alle volte alleggerita allo sguardo da qualche alberello piantato qua è là, qualche metro quadro di erba che ospita assolate aree pic-nic e il grande lago artificiale che ospita l'Albero della Vita. 

L'effetto è straniante: da un tema così nobile come "Nutrire il pianeta - energia per la vita" di tutto ci si sarebbe aspettati, tranne che una comoda distesa grigia e un albero in simil legno spoglio ed esageratamente grande. 
Insomma, sin da subito l'effetto è quello di una Disneyland per bambinoni cresciuti come noi. Il sentore da parco dei divertimenti è confermato dai vari carretti (in plastica, vetroresina, polistirolo?) sistemati lungo tutto il Decumano (la via principale che taglia a metà la fiera) che rappresentano antichi e ricchi banchi del mercato alimentare, dalla macelleria alle spezie. Il tutto rigorosamente plastificato.
Enormi tendoni ricoprono il Decumano per la propria lunghezza, segno della pietà dei progettisti verso le milionate di persone in pellegrinaggio estivo alla Fiera. 
Persone che sembrano non infastidirsi nell'ascoltare i perpetui annunci, in più lingue, sputati fuori dagli altoparlanti seminati in ogni dove, che ricordano quanto Expo sia meravigliosa. Ognuno preceduto dal tipico "dlin dlon" che si ascolta nei supermercati subito prima di "..un addetto al reparto ortofrutta è desiderato in cassa". 
Il supermercato delle ipocrisie è aperto sino a ottobre, venghino siori, venghino. 

L'effetto rintronati è assicurato. Dal caldo, dal rumore, dagli spettacoli assolutamente decontestualizzati che Expo ci propone a tempi alterni lungo il Decumano, dalle architetture stravaganti e seducenti. Va detto che tali architetture sono state riservate, ovviamente, ai paesi meritevoli. Gli altri sono stati raggruppati in modesti cluster, tutti identici, divisi per categorie: dal caffè al riso, dalle spezie alle isole. La maggior parte seminascosti nelle retrovie, ché qui la povertà non esiste e meglio se non la mettiamo troppo in mostra. 
In bella mostra invece ci sono, tra un paese e l'altro, le multinazionali italiane e straniere più in voga, dalla Moretti alla Lavazza, dalla Martini al McDonald's. Quest'ultimo incessantemente pieno, alla faccia della biodiversità. 
Le prelibatezze locali di ogni paese si possono gustare invece sul retro di ogni padiglione, a visita finita, aspettandosi una bella fetta di popolazioni locali addette alla preparazione.
Aspettativa disattesa, però, nella maggior parte dei casi. 
Al padiglione degli Stati Uniti, a servirci un bel Black Angus Burger è stato un ragazzo dall'orecchino al naso con l'accento di Gallarate. 
Bizzarrie culturali che, evidentemente, saltano poco all'occhio del visitatore distratto. 

Ma passiamo ai padiglioni. 
Immancabile la visita a Palazzo Italia, unico nel suo genere, bianco candido, a simboleggiare il vivaio o il nido, non ricordo, in cemento biodinamico. 
Col cemento biodinamico devo ammettere che a primo acchitto mi hanno zittita. Per poi farmi ritrovare la parola una volta dentro. Un'esposizione senza capo né coda, basata sul contrasto e quattro temi portanti: "la potenza del saper fare", "la potenza della bellezza", "la potenza del limite" e "la potenza del futuro". (Credo i titoli li abbia scelti Renzi)
Un'accozzaglia di cose, in cui il cibo e le tecniche di salvaguardia ambientale per il futuro praticamente non compaiono, di cui ricordo, nell'ordine: 21 personalità dell'agroalimentare italiane che raccontano, in un tempo infinito, le loro esperienze, proiettate su quattro statue di carton gesso (non saprei spiegarmi meglio di così), stanze totalmente rivestite di schermi che proiettano immagini delle Cinque Terre, di Capri, di Venezia, senza assolutamente alcuna spiegazione, stanze totalmente rivestite di specchi, una chaos room di due metri quadri a luci stroboscopiche, un filmato della cattedrale di Assisi che crolla, 21 schermi di 21 catastrofi italiane, un'Italia in miniatura con micro-colture semi-morenti delle varie regioni. Un elenco di "Regione Lombardia, Regione Piemonte..." che culmina con "Regione Siciliana". L'incongruenza linguistica che subito ci ricorda che siamo, appunto, in Italia. 
Un fil rouge misterioso e filosofico, della varietà ad canis cazzum, che non valorizza nulla di nostro al mondo. Che dire che sarebbe bastato poco. Un po' di colore, di forme, di sapore, un assaggino di oliva taggiasca, uno spruzzo sul naso di estratto di agrumi di Sicilia. 

Cinquanta minuti di coda e la delusione nel cuore.
Ma basta poco per riportare il morale a livelli accettabili: il padiglione di Israele, con le sue
colture verticali, ispira e invita ad entrare. 
Uno spettacolo digitale decisamente ben fatto ci racconta come Israele abbia fatto del proprio suolo, arido e inospitale, terreno fertile per infinite colture e sperimentazioni agricole d'avanguardia. 
Peccato che il tutto strida, però, con i complicati rapporti diplomatici con la Palestina, che tutt'oggi, dopo decenni, rimane martoriata da Israele. 
Volete per caso dirmi che i contesti sociali, culturali, economici e geopolitici mondiali non influiscono, negli sviluppi dei Paesi?
Volete dirmi che basta decontestualizzare il tutto, parlare solo dei bei cibi che vogliamo mostrare, per parlare di nutrimento del pianeta?
Evidentemente sì. 

Allora lasciatemi almeno mangiare una frittella di zenzero e cipolla nel padiglione del Nepal, tra i mormorii buddisti e le colonne in legno del tempio.
Che faccio finta d'essere altrove. 

Extreme Research - Home Edition


C'è qualcosa di primitivo, nello sbirciare nelle case degli altri dalle finestre aperte.
Non cosa facciano gli altri all'interno delle proprie case, ma proprio le stanze stesse.
Insomma, uno spirito di appartenenza al luogo dove ci si ciba, si russa la notte, ci si guarda allo specchio ogni mattina. 
Una tenda che sventola pigra, un angolo di soffitto, una silhouette di lampadario, qualche libro ordinatamente impilato sugli scaffali. E immagini vite, situazioni, colori, odori che potrebbero essere i tuoi, da quanto sono intimi e racchiusi lì, in quelle quattro mura che vedono le persone crescere e invecchiare, silenziose e senza alcun giudizio. 
Pensi alle tue, di stanze, a tutte quelle che, anche solo per un po', hai abitato, arredato, annusato, colorato. E pensi a quelle che abiterai. 
E quando le cerchi, quelle stanze, quel tetris che riesca perfettamente a incastrarsi con quello che sei, tutto si dimostra più complicato del previsto. 
Soprattutto se quello che cerchi si deve incastrare bene con quello che sei tu e quel che è qualcun altro. 
Soprattutto se ogni volta che varchi un ingresso provi a immaginartici in pigiama, ad aprire un'anta per recuperare i biscotti al mattino. Ti ci immagini a letto con la febbre a sudare la sacra sindone, in cucina a immergere nel Barbera quel brasato che volevi tanto riprovare a fare.
A sbattere quelle porte riverniciate di fresco oppure sbeccate quando sbotterete. (Sbattere le porte rimane una delle mie attività preferite, nelle discussioni). 
Un po' troppo romanzato?
Forse. 
Sarà per questo che sovrapporre immaginario e realtà risulta sempre così difficile. 

Comunque. 
La ricerca di un nido è generalmente estrema. 
Che si faccia online, si batta portone per portone alla ricerca dell'annuncio, manco fosse l'arcangelo in persona a calarlo dal cielo, o ci si faccia consigliare da amici e conoscenti, ti metti nelle mani di qualche guida, del Virgilio di turno che, chiavi in mano, apre porte su un futuro che potrebbe essere il tuo. 
O anche no. 
Perché quell'appartamento è troppo bello ma anche troppo fuori dalla tua portata.
Perché in quell'altro non potresti sicuramente mai portarci tua madre, data la qualità dei vicini e della vista rumenta dalle finestre. (Ho immaginato la faccia di mia madre, sì)
Perché quella simpatica donnina tedesca che mette online un appartamento col bovindo e il bagno in marmo di Carrara ad una cifra irrisoria forse sì, Alessandra, poteva darti due indizi sulla truffa. Senza nemmeno aspettare che ti chiedesse mille euro in anticipo per vederla e decidere, entro 48 ore, se andasse bene o no. 
Insomma, la speranza rimane l'ultima, a morire. 

Chissà qual è, l'importanza giusta da dare ad una casa. 
Chissà dove sta, quel giusto mezzo per sentircisi, a casa. 





E tu, da che parte stai?


La perfezione ha un non so che di inquietante. 
Un po' come il corpo di Christian Bale in American Psycho, un Ken splendido splendente prima che quella tuttofare di Barbie gli rovinasse la vita. 
La perfezione ha quel fascino morboso di un incidente stradale per cui rallenti fin quasi a tamponare la macchina davanti solo per vedere quello spiraglio di tragedia, quel rivolo di sangue, quel casco frantumato sull'asfalto. 
La perfezione suscita l'invidia rovente di chi invece proprio non ci arriva. 
La perfezione ha quel ruolo di linea di demarcazione tra quello che si è e quella roba bellissima che si potrebbe essere, avere, fare, dire, sembrare, apparire, metteteci un verbo a caso.
E allora via, bianco e nero, bello e brutto, la vita si divide in una -appunto perfetta- ottica dicotomica e o sei di qui o sei di lì. 
Un muro di Berlino emozionale per cui le sfumature non esistono. 

Che poi la quotidianità sarebbe così facile dividerla in giusto e sbagliato.
Vero e falso.
Bello e brutto. 
Amico e nemico. 
Che poi uno tende un po' a farla, sta linea a mò di tabella Excel. 
Di qui quello che sì, sta con me. 
Di lì quello che, diamine, non va bene, non è giusto, non è vero. 
Chi mangia carne di là (scusate, è che sotto Pasqua la crociata dell'agnello va di moda, e se lo ricorda anche la Brambilla), chi non la mangia sta con me. 
Chi tifa e chi no, chi è religioso e chi è ateo, chi crede nel nucleare e chi no, chi ha paura dei musulmani (?) e chi no. 
Non c'è spazio per altro. 
Quello che rimane tra le pieghe del bianco e del nero sparisce, inglobato nelle due fazioni ben differenziate e opposte, senza dialogo, senza possibilità di discussione. 
Basta scegliere da che parte stare. 
E poi via, si imparano due o tre regole sulla propria squadra, e si gioca. 
Colpi bassi inclusi. 
Una continua lotta dove il ring ha perso qualsiasi forma. 
Senza spazio né tempo, ormai è così facile dire la propria. 
Lo sto facendo pure io adesso, e figurarsi. 

Eppure tutto questo è inquietante. 
Quasi quanto un centinaio di commenti sotto alla foto di un cane riportato al canile da una padrona che "ha scoperto di essere incinta". 
Tanti, gli auguri alla neomamma. 
"Abortisci"
"Spero che tuo figlio ti sputa"
"Stessa fine dovrai fare, tuo figlio ti abbandonerà e morirai sola"
"Un altra che si fa mettere in cinta e spero che muore"
E dulcis in fundo "ci puo sempre essere caduta spontanea dalle scale"
Non so se il nesso tra la consecutio temporum e la violenza verbale sia scientificamente provato, ma come ricerca sociologica fa parecchio paura. 
Noi e voi.
I buoni e i cattivi. 
Il bene e il male. 
Tutto il resto è adrenalina.

(Di sicuro non grammatica)



La religione del muffin {e qualche livido}


Se nella vita avessi la stessa incostanza con cui aggiorno il blog..OH WAIT. 
Va bene, posso dire che ho da fare.
Che stamane ero a fare colazione in pigiama da McDonald's. 
No, non è vero. 
Che poi uno si chiede "cosa mai dovrà succedere nel mondo per far unire gli animi e gli intenti, per vedere, chessò, 20mila persone riunite insieme per una sola causa? 
Cosa deve succedere, ancora, per smuovere tutti?"
Bastava un muffin lievitato nel '96 e un cappuccino di latte di t-rex fossile.
Gratis. 
La religione del fast food ha molti più adepti di quanto si potesse immaginare.
Alla faccia di tutto il dop, doc, il biodinamico, biologico e bionostalgico.
Che poi le ho viste, le facce delle ragazze in pigiama sui giornali.
Menzognere. 
Il pigiama di Peppa Pig e il trucco di Paris Hilton


Ma va là. 

E questa era solo l'anticipazione di un post che non ha né capo né coda.
La breaking news è in realtà arrivata ieri nelle nostre redazioni: testimoni oculari (il mio fruttivendolo ndr) giurano d'aver visto una testolina rossa e riccia spalmarsi sull'asfalto del marciapiede in zona del Carmine, atterrando di esterno coscia e attutendo così un colpo da dieci e lode. 
In realtà c'era anche Elisa che ha pensato mi fossi spaccata pure il femore. 
Roba che se qualcuno m'avesse filmata a rallentatore avrebbe visto chiaramente la materia contenuta dai miei collant toccare terra, prendere slancio per un altro rimbalzo e riaccasciarsi così, con uno strappo sulla calza che nemmeno nei peggiori periodi grunge adolescenziali. 
Adesso ho anche io le mie cinquanta sfumature. 
Di viola. 
E di voltaren. 


E così mi sono ritrovata a mostrare, con l'orgoglio di una sopravvissuta, le ferite di guerra. 

Alle coinquiline. 
Con l'ausilio del minestrone surgelato di Francesca. (era chiuso, ndr)
"Certo che oh, come sei gonfia, sarà la botta"
"Temo sia la botta di carboidrati che mi son fatta a Roma. Sai, cacio e pepe, carbonara, amatriciana.."
Sì, perché in questo arco temporale di sfighe ho trovato anche il tempo di fare una microfuga nella città eterna, c'ho Lui che mi è diventato famoso e ogni scusa è buona per ingozzarsi.


E per il gran finale mii auto-intercetto e pubblico il testo del misfatto.

Numero privato. 
"Pronto?"
"Pronto, signorina Arpi?"
"Lo sapevo che saresti stato tu, a chiamarmi sempre col privato..." -risolino-
"No signora, sono delle Poste, c'è un pacco da ritirare con urgenza"
"......"
"......"
"....merda..cioè, quando posso venire a ritirarlo?"
Il "tu" in questione non è l'amante ma un collega che adora fare scherzi. 
Ed è quando dai per scontato che sia uno di quegli scherzi burloni, proprio in quel momento, che la figura barbina ti coglie. 


Il volo a pelle d'orso non poteva che essere la degna conclusione di giornata. 


"Charlie?" ovvero qualche bilancio


Non che di solito abbia un filo conduttore nella mia testa. 
Ma stavolta ho aperto blogger un po' per noia, un po' perché ultimamente chiunque è diventato opinionista del web e io non ho più detto una mazza, un po' perché in questa domenica sera ventosa e silenziosa l'alternativa sarebbe stato il candeggiare i bordi della mia finestra, intrisi di una muffa pelosetta e sulle 50 sfumature di grigio. 
Chi ha il sadomaso, chi i parassiti. 
Quindi. La muffa sta ancora lì.
E le mie dita qui, un po' incerte, con l'indice che va a battere ripetutamente sul tasto canc.
Ma mi sembrava un po' d'obbligo, questa cosa di tirare le somme. 
Tirare le somme del tempo che passa, della libertà d'espressione, di questo inverno bislacco, dell'anno appena trascorso (sì, ci ho messo un po' ad elaborare il bilancio e lo snocciolo il 25gennaio) e di questo nuovo ridente 2015 che si è appena aperto davanti a noi. 
Sarà che il passaggio da quel "14" a quel "15" a me ricorda tanto quello tra i 14 e i 15 anni, quando ero ancora digiuna delle tonnellate di sigarette fumate sino a qualche anno fa, quando i miei capelli erano ancora vergini di tinte e soprattutto c'erano (spoiler: non sono ancora pelata, li ho solo tagliati), quando non avevo preso più chili di una gravidanza in cinque mesi, quando ancora pensavo che la professione che avrei voluto intraprendere sin da pargola fosse un misto tra Tiziano Terzani e Bob Woodward e invece i tempi sono un pelino cambiati, sarà che ero anche una fulgida stella nell'universo degli adolescenti in crisi ma in fondo teneramente piena di speranze, ma quest'anno mi ricorda proprio quel periodo.
E no, non perché ho deciso di riesumare i jeans a zampa d'elefante della Fornarina
Ma perché questo passaggio 14-15 è pieno delle stesse speranze, mutate, stropicciate, ridimensionate, forse parecchio disilluse, ma pur sempre speranze. 
Questo passaggio è avvenuto senza troppe aspettative, senza grandi preparativi.
Senza perizomi rossi.
Senza buttare dalla finestra qualcosa di vecchio.
Senza la frenesia che precede l'organizzazione di un cambiamento epocale.
Ma con qualche amico in più, un po' di focaccia e dei calici da vino da sedici euro.
Eppure qualcosa si deve essere mosso.
Qualcosa proprio lì, tra le costole, tra lo sterno e il fegato, in mezzo ai reni. 
Qualcosa di pesante, intricato ed annodato.
Che si è spostato altrove. (Forse sui fianchi?)
Si è mosso e ha emesso una risata.

Nel frattempo c'è stata Frida, qualche rigurgito di una signorina mora sul mio maglione, del cibo cinese, un gratta e vinci, qualche crisi di nervi, qualche chilo di peperonata (toglietemi tutto, ma non il pepper), qualche sogno premonitore, un grembiule, il miracolo del pane che lievita, un 36, un po' di Messico, un po' di Ungheria, un po' di Modena e un po' di Polonia, senza nemmeno spostarsi. 
E c'è stato Charlie. 
Che per me Charlie era pelato e con una maglietta gialla.
E invece Charlie con l'accento sulla "i" è entrato con prorompenza nelle nostre vite, proprio il giorno in cui il mondo ha scoperto la libertà d'espressione.
In tutto questo ho solo una domanda: poniamo che io, indossando i colori del Genoa e con una trombetta da stadio in mano mi rechi, appunto, allo stadio. Al derby. All'uscita della curva sud. (N.B. Ho scelto Sampdoria e Genoa solo perché vagamente ne ricordo i colori e i giocatori, non per razzismo calcistico). E con il mio migliore estro artistico disegni un cartello, che espongo ben in evidenza in mano, con un'immagine stilizzata di un nuovo calciatore e la didascalia "Eto sterco". E con suddetto cartello tra le mie manine sante, mi ponga ben di fronte agli ultras ripetendogli anche a voce il concetto di cui sopra. 
Possiamo ragionevolmente supporre che nel migliore dei casi io vinca uno stupro e nel peggiore qualche pietrata in mezzo agli occhi? Possiamo.
Ora. 
La domanda è la seguente: sono loro degli animali senza pietà o io un pochino demente e provocatoria, o entrambi? E' stata, la mia, libertà di espressione? 

La posso piantare?
Sì. 



E' Natale e io corro

-L'adorabile foto è di Gail Albert Halaban-

Al liceo studiando Bergson ho sempre trovato geniale la divisione tra tempo esteriore e tempo interiore, lui e la sua precisione così francese a spiegarci con estrema razionalità e filosofia che il tempo scandito dalle lancette dell'orologio è ben diverso da quello percepito da ogni individuo. 


D'accordissimo. 

Al tempo però fissavo solo con impazienza il display del mio telefonino pregando che passasse in fretta l'ora di chimica perché non capivo una mazza. 


Tutto qui. 

Crescendo ho pensato come Bergson non abbia mai parlato, però, di tutto quel tempo vissuto alla rinfusa, senza che passi lentamente né velocemente, nel quale si viene sballottati qua e là tipo la giostra delle tazze a Disneyland, peraltro con la stessa sensazione di vomito imminente. 
Quel tempo in cui in un attimo ti ritrovi da una città ad un'altra senza ricordare il sedile del treno che hai appena preso, perché eri troppo occupata a ripassare per quell'esame che hai tra due gior no, in realtà hai passato metà del tempo a sbirciare nelle case altrui, quelle affacciate sulla ferrovia, sempre le stesse in cui sbirci ad ogni viaggio, una volta con le tende scostate e la luce gialla del lampadario alla sera, all'ora di cena, e una volta con la signora in grembiule che spazza il poggiolo. 



Bergson non ha mai parlato del tempo che passa veloce non perché sia necessariamente un bel momento, ma perché il cervello non riesce a soffermarsi, a capirlo, a gustarlo. 

Il cervello diciamo che non riesce punto. 
E allora la vita scorre un po' così, in quella non-beatitudine di chi non capisce, di chi non afferra quell'unico particolare che potrebbe far capire tutto. (The story of our lives, insomma) 
Scorre che ieri ero in una farmacia corsa a blaterare qualcosa in francese per avere una pomata contro le punture di medusa e domani è Natale, un semestre di università è passato e torno a dare esami come se nell'ultimo anno e mezzo non avessi fatto altro e invece ho fatto tutt'altro, e nei ritagli di tempo bazzico per negozi scintillanti e orrendamente addobbati cercando regali, tra le facce perplesse e spaesate degli uomini e quelle rapaci e pronte ad accaparrarsi l'ultima occasione delle donne. 
Menomale che esistono, gli uomini sotto Natale. 

Quasi tremano nelle Feltrinelli, da Zara, da Tiger, nascondendosi tra gli scaffali come i cani durante un temporale, con quell'occhio piegato all'ingiù dei bassethound e le mani intrecciate dietro la schiena, a volte con qualche sacchetto rosso e oro in mano, chiedendosi cosa diamine si cucinerà il quel fornetto del reparto smalti, forse un toast formato mignon, quanti brillantini debba avere un'agenda per piacere alla fidanzata o di che colore debbano essere i cuori del plaid di pile per la madre. 
Un po' tristi un po' con il mio sguardo del liceo nell'ora di chimica, con quella tipica espressione da "speriamo passi presto".
Menomale che esistono perché sono solidale con loro.
Ma per poco.
Perché sono già sulla cyclette a sudare via la focaccia del pomeriggio. 
E' Natale e io corro. 

La mia violenza.


Era il 25 novembre, è stato il 25 novembre. 
Un 2 e un 5 pieni sino all'orlo di parole forti, eleganti, determinate. 
Niente violenza. 
Niente violenza sulle donne. 

Consapevolezza. Forza di reagire.

E già è parecchio inquietante che ci sia il bisogno di ricordarsi, un giorno all'anno, che legnare le donne, ma soprattutto chiunque, non è carino. È un po' peggio di dimenticarsi l'anniversario.
Ma il risvolto che più fa rabbrividire, quello che scivola tra le pieghe dei luoghi comuni e dei volti di donna con l'occhio nero spalmati su tutti i muri, quello che si nasconde dietro le campagne mediatiche sui social, adorabili con i propri hashtag, anni luce prima dei convegni con gli psicologi e gli assistenti sociali, è quello degli altri 364 giorni.
Quelli della vita quotidiana, quelli prima di una relazione, quelli prima di.
La mia violenza, ma anche la tua, la sua, quella della mia farmacista, è così banale e perfettamente mascherata che non ha le forme della violenza. 

Non lascia lividi, non spinge giù dalle scale, non telefona di notte a tutte le ore minacciandomi. 

Non ha le sembianze del femminicidio, che se word me lo dà errore un diamine di motivo ci sarà.

Ma lascia l'amaro in bocca quando in treno il signore di mezza età, seduto di fronte a me, con la ventiquattrore di pelle e il cellulare in mano lo alza con nonchalance, altezza volto, e finge di concentrarsi su un messaggio. Finché non si sente distintamente un click tipico della fotografia.
Lascia l'amaro in bocca quando i consigli della sessuologa sbandierati sulle riviste sostengono che per mantenere alta la libido di coppia siano le nostre, di chiappe, a dover essere stringate e circondate da fili di lustrini, anche a gennaio, e le nostre, di gambe, perfettamente depilate, e le nostre, di sopracciglia, che non prendano possesso dell'intera faccia come quella della -pur meravigliosa- adorabile Frida Kahlo.
Lascia l'amaro in bocca quando le calze nere e il tacco che indosso con -ben poca- disinvoltura per una cena elegante sembrano essere il corrispondente segnico di un cartello con scritto "la calza nera l'ho messa per te, buon uomo che mi fissi sul pullman".
Lascia l'amaro in bocca quando nel tuo lavoro e in una presentazione "come sei carina sul palco" mentre i tuoi colleghi "come sono professionali".

Lascia l'amaro in bocca quando si pensa che l'umanità intera, uomini e donne, dovrebbe ragionare a fondo sul fatto di questa mania di catalogare il sesso femminile quello "debole". E soprattutto decidere se lo sia sempre, in ogni circostanza, o solo quando fa comodo (agli uni e agli altri).

E' sesso debole solo quando ci si fa offrire l'aperitivo o si entra gratis nei locali ma è sesso forte quando si chiede la parità sul lavoro. E al contrario è parità dei sessi quando la valigia me la devo camallare per sei rampe di scale in stazione Principe senza che un buon samaritano muscoloso mi presti le sue braccia, ma non lo è quando invece guido, che, in quanto donna, direziono il mio automezzo ad canis cazzum. Lascia l'amaro in bocca quando sembra che la parola sindaca, assessora e avvocatessa siano la priorità nel mondo lavorativo, culturale e sociale dei paesi avanzati.

Quando basterebbe molto meno.